Copertina del romanzo "Le otto montagne" di Paolo Cognetti

Le otto montagne di Paolo Cognetti


SPOILER ALERT: questo articolo contiene rivelazioni sulla trama dei romanzi Le otto montagne di Paolo Cognetti e L’amica geniale di Elena Ferrante. 


Le otto montagne di Paolo Cognetti è un romanzo vincitore del Premio Strega nel 2017. Io, come tanti, l’ho letto quest’anno (la mia prima lettura del 2023), sull’onda dell’entusiasmo generale per la trasposizione cinematografica che pare essere particolarmente bella e riuscita. 

Le otto montagne racconta l’amicizia tra Pietro, ragazzino di città che ogni anno insieme ai genitori lascia Milano per trascorrere le vacanze estive in montagna in un paesino della Valle d’Aosta ai piedi del Monte Rosa, e Bruno, figlio di allevatori, nato e cresciuto su quella stessa montagna che conosce come le sue tasche. 

Pietro è quello che va e viene, frequenta l’università e viaggia realizzando documentari. Bruno invece resta: da allevatore diventa muratore e in seguito casaro, realizzando il desiderio di produrre e vendere il proprio formaggio. Ritrovatolo dopo tanti anni, Pietro si domanda se l’amico abbia mai lasciato la montagna e i luoghi dell’infanzia, fosse anche per poco tempo. È una domanda che sottintende già una risposta: no, Bruno è sempre rimasto sulla sua montagna. 

Questo attaccamento al luogo d’origine, mai imposto eppure ineluttabile e necessario, mi ha ricordato la tensione che nella tetralogia dell’Amica geniale di Elena Ferrante lega Lila al suo rione. Come Bruno, anche Lila trascorre l’intera sua vita nei luoghi dell’infanzia, in quel rione che è una prigione ma all’interno della quale ha la certezza di saper come sopravvivere… fuori invece, chissà. Anche per Bruno, che pure è sinceramente innamorato dei torrenti, delle valli e della natura incontaminata, restare non è semplice: la montagna gli riserva fatiche e dispiaceri, a partire dalla grande difficoltà di guadagnarsi da vivere con il caseificio. 

Entrambi, Lila e Bruno, concludono la loro storia svanendo, diventando un tutt’uno con Napoli e il rione, con la montagna. Lila, ormai signora di una certa età, fa sparire i propri vestiti, si ritaglia via dalle foto di famiglia, fa sparire ogni traccia di se. 

La madre di Rino si chiama Raffaella Cerullo, ma tutti l’hanno sempre chiamata Lina. Io no, non ho mai usato né il primo nome né il secondo. Da più di sessant’anni per me è Lila. Se la chiamassi Lina o Raffaella così all’improvviso penserebbe che la nostra amicizia è finita. Sono almeno tre decenni che mi dice di voler sparire senza lasciare traccia e solo io so bene cosa vuol dire. Non ha mai avuto in mente una qualche fuga, un cambio d’identità, il sogno di una vita altrove e non ha mai mai pensato al suicidio, disgustata com’era dall’idea che Rino abbia a che fare con il suo corpo e sia costretto ad occuparsene. Il suo proposito è sempre stato un altro: voleva volatilizzarsi, voleva disperdere ogni sua cellula, di lei non si doveva trovare più niente, e poiché la conosco bene, dò per scontato che abbia trovato il modo di non lasciare in questo mondo nemmeno un capello, da nessuna parte. 

Bruno si dissolve nell’inverno carico di neve della montagna. 

Un giorno di marzo Lara mi scrisse di telefonarle appena potevo. Mi disse poi a voce che Bruno non si trovava più. I suoi cugini erano andati su a vedere se stava bene, ma alla barma nessuno aveva più spalato da parecchio tempo. La casetta era scomparsa sotto la neve e anche la parete di roccia si distingueva a fatica. I cugini avevano chiamato aiuto e una squadra di soccorso portata dall’elicottero aveva scavato fino a raggiungere il tetto. Avevano fatto un buco nelle tavole e a quel punto si aspettavano, come a volte succedeva con i vecchi montanari, di trovare Bruno nel suo letto, colto da un malore e morto congelato. Solo che in casa non c’era nessuno, ne lì intorno dopo le ultime nevicate si vedevano tracce passaggio. Lara mi chiese se avevo qualche idea, dato che ero l’ultimo ad averlo visto, e io dissi di guardare se in cantina si trovavano dei vecchi sci. No, non c’erano nemmeno quelli. Il soccorso alpino cominciò a battere la zona con i cani, così per una settimana la chiamai ogni giorno per avere notizie, ma c’era troppa neve sul Grenon e con la primavera si entrava nella stagione peggiore per le valanghe. In marzo le Alpi ne furono martoriate e dopo tutti gli incidenti di quell’inverno in cui i morti sui versanti italiani arrivarono a ventidue, a nessuno interessò più molto di un montanaro disperso in un vallone sopra casa sua. Nè a me né a Lara a quel punto sembrò importante insistere perché continuassero a cercare. Bruno lo avrebbero trovato con il disgelo, sarebbe spuntato in qualche canalone in piena estate e sarebbero stati i corvi a scoprirlo per primi. “Secondo te era quello che voleva?”, mi chiese Lara al telefono. “No, non credo”, mentì. 

Non perdere nemmeno una briciola

Ricevi i nuovi articoli via mail